Racconti natalizi per bambini: eccone uno inquietante

Fa freddino, anzi freddone; per strada le guance si arrossano e il respiro fa nuvolette; di sera lucine rosse e gialle decorano le vie; l’albero tutto agghindato fa bella figura in soggiorno; mancano all’appello solo i racconti natalizi per bambini. Ne ho scritto uno dalle tinte un po’ fosche, che ha per protagonista un orsacchiotto. Leggilo adesso.

Racconto di un Natale di Milano

C’era una volta, molto tempo fa, un giocattolo che aspettava nel soggiorno una bambina dalle trecce bionde. Era tutto bello infiocchettato, con la carta lucida fiammante dai riflessi dorati e rosseggianti. Stava appollaiato sotto l’albero, dove l’aveva messo il Babbo verso le due del mattino, quando i piccini erano già a nanna e gli adulti sonnacchiosi ciondolavano verso il letto, dopo l’ultimo brindisi e le chiacchiere della notte di Natale.

Le luci, una dopo l’altra, erano spente, da mano umana o da incantesimo. Le ombre erano i regali delle stelle e della luna, la notte si proclamava regina e instaurava il regno del silenzio. A tutti i giocattoli non rimaneva che far la posta alle ore e ai minuti, al ticchettio degli orologi, ai blu e ai grigi che si trasformano dal tramonto all’alba, fino allo splendore del giorno, quando i bambini fanno risuonare nelle case il fruscio dei doni scartati.

Ma il nostro giocattolo era inquieto. Gli avevano detto che doveva essere il migliore di tutti. Migliore del cavalluccio di legno, del gioco da tavola, dell’uccellino meccanico, del coniglietto di pezza e del peluche con la faccia tontolona. Lui ce l’aveva messa tutta. Da quando gli avevano attaccato i primi bottoni a quando l’avevano rivestito delicatamente, tendendo bene i lembi dei fogli colorati e arricciando sapientemente i nastri sgargianti, lui si era concentrato, era stato attento, aveva fatto tesoro di ogni parola, ogni sospiro, ogni immagine, e aveva imparato a dirsi:

«Io sono Orsacchiotto, l’orsacchiotto migliore di Milano, dell’Italia intera e del mondo tondo giocondo e meditabondo».

Così il suo cuore era diventato robusto, pulsava solenne a ritmo cadenzato, fisso, preciso e immutabile. Ma ora che le manine della bambina con le trecce bionde erano vicine, a pochi metri al di là della cucina, oltre il corridoio, nella cameretta calda e accogliente, abbandonate al sonno, sfiorate dal respiro regolare dei sogni, il giocattolo si  sentiva gelare dentro, il cuore e la fine imbottitura, il coraggio e lo spugnoso poliestere.

L’orologio alla parete diceva che era quasi mattina, si accigliava nella smorfia delle sette e venti e continuava imperterrito a battere il tempo fino alle otto, quando la luce la annunciava finalmente per i bambini e irrimediabilmente per il povero Orsacchiotto. Si fece forza, e ancora si ripeté:

«Sono Orsacchiotto, l’orsacchiotto migliore di Milano, dell’Italia intera e del mondo rotondo vagabondo e tremebondo».

Il corpicino soffice allora pareva ritemprato, il pelo divenne più morbido e vivido sotto la carta regalo, i bottoni della camicettina bianca bianca fecero un balzo sospinti dall’orgoglio. Era pronto. Era pronto. Era pronto a far la gioia della bambina con le trecce bionde e l’invidia di tutti gli altri bambini. Iniziò a sentire i rumori del risveglio.

Ecco lo strofinio delle lenzuola. Ecco le manine che cercano una maglia sulla seggiola. Ecco lo scalpiccio dei piedini che trotterellano in corridoio, le voci argentine che si chiamano, ancora lo scalpiccio dei talloni piccoli e scalzi che adesso erano diretti senz’altro indugio ai piedi del grande albero addobbato del soggiorno. Ecco la voce più acuta di tutte, le manine più delicate, i gesti più leggeri, danzanti sulle scie lasciate dalle fate.

Era la bambina con le trecce bionde. Già strofinava con i palmi leggeri la carta colorata, pian piano la tendeva, la tirava, e infine con un secco strattone e un gridolino la strappava, prima in un unico minimo punto, poi lungo tutta la superficie del pacchetto, con un suono sordo ruvido e vibrante.

Orsacchiotto si gonfiò tutto d’entusiasmo, sfoderò il suo più smagliante sorriso e gli parve di rispondere ai gridolini della bambina con le trecce bionde con una calda e rassicurante risata, il meglio che un signor giocattolo del suo livello poteva offrire. Lo sapeva che era arrivato il suo momento, il traguardo per cui tanto aveva lavorato. Ora sentiva le manine felici della bambina sul suo corpicino e vedeva gli occhioni meravigliati che lo guardavano. Adesso le braccia minute lo stringevano piene d’affetto e gioia, mentre saltelli frenetici lo muovevano su e giù come su una giostra. Che vittoria. Che successo. Lui era davvero il giocattolo migliore dell’universo.

Nel frattempo il Babbo era sceso ancora un poco giù dal camino per dare una sbirciatina e fissava Orsacchiotto soddisfatto, mentre gli altri giocattoli erano ancora impacchettati. Fu un attimo e arrivarono i cinque fratelli della bambina con le trecce bionde, che scartarono il cavalluccio, il gioco da tavola, l’uccello meccanico, il coniglietto e il peluche tontolone.

Allora fu davvero una gran festa perché Orsacchiotto vedeva bene che lui era proprio il più bello di tutti, il più in gamba, intelligente, utile e produttivo. La bambina con le trecce bionde lo vedeva anche lei, e diceva: «Orsacchiotto, ti voglio bene, sei il mio giocattolo preferito, ti terrò con me ogni giorno in ogni mio gioco, nei momenti della merenda, nell’ora del pisolino, a pranzo e a cena sulla sedia degli ospiti, e di notte accanto al cuscino per far veglia ai miei sogni. Ah, sono fortunata, la più fortunata di tutti».

Anche i fratelli erano contenti dei loro regali, ma ben presto si incuriosirono dell’entusiasmo della sorella.

«Vieni qua. Facci vedere il tuo peluche», le dissero.

«Ora ve lo mostro, ma non toccatelo», rispose lei, avvicinandosi con circospezione.

Uno dei cinque bambini, ciascuno un po’ più piccolo dell’altro, allungò un braccio magrolino, ma svelto e già lungo, per accarezzare Orsacchiotto.

«Non toccarlo, non toccarlo», urlò la bambina e fece un salto indietro.

«Facci giocare con il tuo orsacchiotto», gridò un altro dei fratelli e con uno scatto si protese ad afferrargli un orecchio soffice e ricoperto di morbido pelo lucente.

Strinse bene la presa e iniziò a tirare.

Gli altri fratelli seguirono il suo esempio e assaltarono in un secondo l’altro orecchio di Orsacchiotto, le quattro zampette e la piccola coda che spuntava da sotto le braccine della bimba serrate attorno al corpo del pupazzo.

«È mio, è mio», urlava, mentre cercava di ripiegarsi su se stessa, soffocando il suo giocattolo, per sfuggire ai fratelli che non mollavano la presa, e anzi, tiravano sempre più forte, rinvigoriti dalla lotta.

Intanto Orsacchiotto era soverchiato dalla festa, che da febbrile attesa era mutata in un lancinante dolore che gli attraversava tutto il corpo, incapace di opporsi alla furia, lacerato a poco a poco come in una seduta di tortura, senza nemmeno il sollievo di confessare in un sol fiato.

Orsacchiotto resisteva, ma si rendeva conto che ne aveva ancora per poco.

La bambina lo tirava con violenza per la testa.

I fratelli rispondevano con brutali strattoni alle braccia, alle gambe e alla coda.

Il tiro all’orsacchiotto continuò così fino al colpo profondo che sembrò salire su dall’Oltretomba e staccò la testa al povero pupazzo.

Allora il Babbo rise dal camino.

E risero anche i fratelli tutti insieme, prorompendo in ululati di disprezzo.

«Non eri poi questo granché, Orsacchiotto. Anzi, non eri niente. Facevi schifo», dicevano.

La bambina, che prima singhiozzava disperata, ora rideva anche lei, piegata in avanti, rideva a crepapelle, e le trecce le ornavano le spalle e il petto incantevoli di piccola donna.

L’orsacchiotto giaceva sul pavimento morente e così disfatto non era più lui, umiliato, triste e pieno di vergogna.

Ma per l’ultima volta si disse:

«Sono Orsacchiotto, l’orsacchiotto migliore di Milano, dell’Italia intera e del mondo tondo nauseabondo e di sangue adesso grondo».

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